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Museo Diocesano

Museo Diocesano

Il museo diocesano è formato da un percorso archeologico ipogèo e da un’area espositiva comprensiva anche della pseudocripta. la pseudocripta consta di due navate allineate, la cui fondazione in opus vittatum risale al v secolo d.c., separate tra di loro da un colonnato realizzato con elementi di spoglio. in questi spazi sono visibili alcuni lacerti di pavimentazione in opus sectile databili alla prima metà del xii secolo e numerosi frammenti di pitture murarie che decoravano le cappelle, tra cui il ciclo pittorico dedicato a san barbato, collocabile tra la fine del ix e gli inizi del x secolo. ospita la cattedra in ferro battuto di san barbato del vii secolo, la figura alata datata al xiv secolo, le ampolle vitree datate tra il i ed il iv secolo d.c, le lapidi paleocristiane, i carmi sepolcrali dei principi longobardi di benevento datati al ix secolo, una capsella-reliquiario del secolo viii in legno ricoperto di una lamina di rame dorato con incisioni; la croce aurea del vescovo pietro sagacissimo (secoli ix-x); i frammenti degli amboni del duomo del xiv secolo.

Museo del Sannio

Museo del Sannio

Il primo nucleo della collezione risale al 1873 ed ebbe una prima sistemazione all’interno della Rocca dei Rettori, attualmente sede della Sezione Storica. Nel 1928 l’amministrazione provinciale acquistò l’Abazia di Santa Sofia, trasformandola in museo provinciale, riorganizzando e ampliando l’esposizione nei decenni successivi.

Piazza Roma

Piazza Roma

Pochi sanno che la piazza fu fatta costruire dal cardinal di papa Benedetto XIII Niccolò Coscia (nato a Pietredefusi nel 1681 e morto a Napoli nel 1755) il quale per il proprio palazzo – l’attuale Collenea Isernia – voleva una veduta più spaziosa. Figura controversa, il cardinal Coscia fu accusato di cattiva gestione delle finanze pontificie e di abuso di potere, motivi per i quali venne condannato a dieci anni di prigione e ad una pesante multa. Dopo la morte di Benedetto XIII (Vincenzo M. Orsini), finito in bassa fortuna, dovette lasciare Roma. Questo giusto per la cronaca relativa al personaggio. E’ solo negli anni Trenta, tuttavia, che piazza Roma diviene una vera e propria piazza con le caratteristiche attuali. Da sempre punto nevralgico della vita cittadina, il cuore di Corso Garibaldi ospita il Convitto Nazionale ‘Pietro Giannone’ dal lontano 1603.
Il Convitto è un istituto di istruzione primaria e secondaria ed inoltre ospita anche alcuni corsi della Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi del Sannio. I Gesuiti avevano acquistato il palazzo della nobile famiglia De Gennaro, tramutandolo in collegio e monastero. Il terribile terremoto del 5 giugno 1688 distrusse buona parte dell’edificio, ma esso fu riedificato a proprie spese proprio da quel cardinale Orsini che sarebbe divenuto il futuro papa Benedetto XIII (l’immagine qui riprodotta è quella di una medaglia del 1728 con il volto di papa Orsini). Nel 1702 sulla città si abbatte un altro terremoto ed anche stavolta Orsini viene in aiuto dell’edificio. I lavori terminano nel 1736 a cura del cardinale Fieri, che se ne assume l’incarico dopo la morte di Orsini.
Il Liceo nasce nel 1810 ad opera del governatore Louis De Beer, inviato del principe Talleyrand, che invece non mise mai piede a Benevento. De Beer a Benevento si diede molto da fare per arricchire le collezioni private proprie e dello stesso Talleyrand. Il Convitto è invece stabilito nel 1861 dalla Provincia di Benevento in osservanza di un decreto del Regno di Sardegna. Nel 1865 esso passa all’amministrazione del Ministero della Pubblica Istruzione e intitolato al filosofo, storico e giureconsulto napoletano Pietro Giannone (sortendo anche alcune discussioni in città, a causa delle sue note posizioni anticlericali).
C’è da dire che intanto, prima gli Scolopi e poi i Gesuiti, proprio in questo edificio hanno iniziato un’opera di recupero di alcuni reperti archeologici, che andranno poi a costituire parte considerevole dell’attuale Museo del Sannio, fondato invece nel 1873, prima avendo come sede la Rocca dei Rettori e poi, dal 1929, ad opera di Alfredo Zazo, l’attuale complesso monumentale di Santa Sofia. Intellettuale di punta del nuovo Liceo Classico è il poeta toscano Francesco Corazzini (nato a Pieve Santo Stefano (AR) nel 1832). Nel 1864 Corazzini, insieme ad Enrico Isernia fonda il settimanale Gazzetta di Benevento, di tendenza moderata e pertanto in aperto contrasto con Il nuovo Sannio diretto da Salvatore Rampone. Isernia (Benevento, 1831-1907) aveva iniziato i suoi studi proprio presso il Collegio gesuitico, ma ne era stato poi allontanato per avere mostrato sentimenti liberali. Nel 1860 partecipa al moto insurrezionale che libera Benevento dal plurisecolare governo pontificio. Laureato in Giurisprudenza, Enrico Isernia scrisse opere di vario genere, tra cui alcuni saggi e due tragedie. Per quanto riguarda Corazzini – a cui nel 2010 è stata intitolata la biblioteca dell’attuale Liceo Classico “Giannone” di Piazza Risorgimento – va anche ricordato che egli nel 1867 fonda l’Accademia Beneventana con lo scopo di costituire proprio un museo cittadino. E’ il periodo in cui in città operano il gesuita Raffaele Garrucci e l’archeologo Theodor Mommsen. Poi Corazzini lascia Benevento e va ad insegnare prima a Napoli e poi all’accademia militare di Livorno. Nei pressi del Convitto nel 1651 i Gesuiti avevano anche fondato la Chiesa del Gesù. Devastata da un incendio in una sera del mese di giugno del 1918, fu abbattuta nel 1926.

Sant’Ilario a Port’Aurea

Sant’Ilario a Port’Aurea

Il complesso monumentale di Sant’Ilario è di origine longobarda, costruito intorno al VI – VII secolo su rovine di una costruzione precedente. Il nome del complesso, in passato utilizzata come chiesa, deriva dalla vicinanza all’Arco di Traiano, che nel medioevo, inserito nella cinta muraria, assunse il nome di Porta Aurea.

Hortus Conclusus

Hortus Conclusus

L’Hortus Conclusus è un’installazione artistica a cura di Domenico Palladino, esponente di spicco della Transavanguardia Italiana, realizzato nel 1992 in collaborazione con gli architetti Roberto Serino e Pasquale Palmieri e il lightning designer Filippo Cannata. Il nome Hortus Conclusus deriva dal Latino e identifica

Basilica Madonna delle Grazie

Basilica Madonna delle Grazie

“Mirasi poi nella chiesa di san Lorenzo che viene anco detta S. Maria delle Grazie per esservi una bellissima statua della Madonna Santissima delle Grazie, di mano di Giovan di Nola, la quale è collocata nell’altare maggiore di detta chiesa”.
Nonostante la chiesa non sia più la stessa, il gruppo scultoreo ligneo di una Madonna col Bambino campeggia ancora oggi sull’altare maggiore di un imponente tempio che porta la dedicazione alla Madonna delle Grazie.
Secondo gli studiosi la statua della Vergine, probabilmente la più conosciuta e venerata a Benevento, è da attribuire a Giovanni Marigliano, detto Giovanni da Nola, che la scolpì nei primi anni del XVI secolo, per volontà dei frati minori arrivati a Benevento dopo il 1470. Il tipo di iconografia scelta è vicina al mondo dei francescani, desiderosi di esprimere sentimenti più “privati” ed umani, come quelli ineguagliabili tra una madre ed il proprio figlio.
L’attuale simulacro ligneo cinquecentesco, sostituzione di un’immagine più antica conservata nell’allora chiesa di san Lorenzo fuori le mura, rappresenta Maria in piedi, stante, abbigliata con una tunica rossa e pesante a fiori dorati; l’oro si ripropone lungo la scollatura e i bordi della veste, così come va ad impreziosire i calzari della Vergine, quasi a ricordarci le imperatrici orientali. Di classica attribuzione mariana il manto blu trapunto di stelle che copre le spalle di Maria e ricade in avanti con un morbido drappeggio. Nonostante lo scultore abbia sapientemente ricreato un panneggio consistente per le vesti, la fisicità di Maria è mostrata in maniera naturale e plastica: sotto il mantello blu, con elegante spontaneità, appare un ginocchio piegato in avanti.
Il capo della Vergine è avvolto da un velo rigato: i capelli neri compaiono, appena accennati, attorno ad un viso raffinato intento ad osservare lo spettatore; con il braccio sinistro sostiene il Gesù bambino, anche lui dalla scura capigliatura, mentre con le dita della mano destra si scopre un seno.
L’immagine del gruppo scultoreo beneventano prende vita nel ricordo dell’iconografia della Madonna lattante ed entra nel vivo del tema della doppia natura del Cristo, umana e divina. La Madonna delle Grazie beneventana assume in sé tutta l’umanità di una madre che nutre il proprio figlio, diventa fonte di immedesimazione ed ispira sentimenti “familiari” eppure unici. Nonostante l’idea che la scultura sottende la Vergine Maria non allatta il piccolo Gesù, intento invece ad alzare la mano destra nell’atto di benedire. Il gesto naturale di Maria che si scopre il seno è, probabilmente, da leggersi in chiave simbolica: la madre del Cristo è colei che elargisce nutrimento a tutta l’umanità, da lei prende vita la grazia concessa ad ogni uomo.
Il destino della scultura beneventana della Madonna delle Grazie si intreccia indissolubilmente alla vita della sua città. Vincenzo Maria Orsini, futuro papa Benedetto XIII ne fu un grande devoto: a lei dedicò il primo saluto dopo la nomina ad arcivescovo di Benevento e l’ultimo da papa; a Lei offrì la ricostruzione della chiesa di san Lorenzo dopo i terremoti del 1688 e del 1702; nel 1700 l’icona lignea della Vergine venne proclamata patrona della città e di tutto il ducato beneventano; sotto la Sua protezione furono eseguiti i lunghi lavori di costruzione dell’attuale basilica; proclamata da Pio XII patrona del Sannio, la Vergine Beneventana ha visto nel 1990 l’importante e storica visita di papa Giovanni Paolo II.
Tutta la comunità beneventana si stringe forte attorno alla Vergine durante la sentita festività a Lei dedicata il 2 luglio: un attaccamento radicale e radicato alla propria patrona che, come racconta Salvatore De Lucia in uno dei suoi scritti, […] è attesa [una festività] con ansia e goduta con amore.

Arco di Traiano

Arco di Traiano

L’Arco di Traiano è un’opera unica al mondo. Simbolo di Benevento, rappresenta una testimonianza ben conservata della civiltà romana. Per la sua edificazione si indica la data del 114 d.c. Venne costruito per celebrare la figura dell’imperatore Traiano in occasione dell’inaugurazione della via Appia, strada che collegava Roma a Brindisi. Per la sua grandezza, venne nei secoli chiamato “Porta Aurea”. E Traiano viene ricordato come “Optimus”, principe illuminato la cui fama è giunta intatta fino ai nostri giorni. Lo stesso Dante lo poneva in Paradiso a testimonianza di una grandezza indiscussa.
L’arco si presenta composto da un solo fornice alto 15,60 m e largo 8,60 m. Su ogni facciata troviamo quattro semicolonne, disposte agli angoli dei piloni, che sorreggono una trabeazione. Oltre le architravi vi è un attico, che sporge nella parte centrale sopra il fornice, e che presenta all’interno uno spazio coperto da una volta a botte. È costruito in blocchi di pietra calcarea, rivestiti da opus quadratum in blocchi di marmo pario.
La ricca decorazione scultoria mostra temi diversi su ogni facciata: quella interna, che guarda alla città e ai cittadini, si rivolge alla pace e alla provvidenza mentre quella esterna che guarda alle province si riferisce alla guerra e alle provvidenze dell’imperatore. L’attico presenta un’iscrizione dedicatoria centrale e due pannelli a bassorilievo: quello esterno conteneva due raffigurazioni, quella a sinistra era un omaggio alle Divinità agresti mentre quella a destra la Deduzione di Colonie provinciali. Il pannello sul lato interno anch’esso contenente due raffigurazioni, presentava a sinistra Traiano accolto dalla Triade capitolina e a destra Traiano nel Foro Boario.
Il fregio della trabeazione raffigura la processione per il trionfo di Traiano sulla Dacia, ad altissimo rilievo.
Su ciascun pilone altri due pannelli, posti l’uno sull’altro, raffigurano ancora scene e allegorie delle attività imperiali. I pannelli sono divisi da rilievi decorativi più bassi con rappresentazioni di vittorie taurotoctone al centro e gli/le Amazzoni in alto.
I pennacchi dell’arcata del fornice raffigurano personificazioni del Danubio e della Mesopotamia sul lato esterno e la Vittoria e la Fedeltà militare sul lato interno, accompagnate dai Geni delle quattro stagioni. Sulle chiavi dell’arco si presentano altre raffigurazioni:la Fortuna sul lato esterno e Roma sul lato interno.
I lati interni del fornice presentano due grandi pannelli scolpiti che raffigurano scene delle attività svolte da Traiano nella città. A sinistra troviamo il Sacrificio per l’inaugurazione di Via Traiana mentre a destra è scolpita l’istituzione degli Alimentaria (istituzione benefica avviata da Traiano per aiutare i bambini dell’Italia romana) simboleggiata dai pani sul tavolo al centro.
Infine sulla volta, decorata a cassettoni, compare la raffigurazione dell’Imperatore incoronato da una Vittoria.

Arechi I, immediatamente dopo la conquista longobarda, nel VI secolo d.C., lo ingloba nella nuova cinta muraria, facendolo divenire porta urbica. Questa nuova funzione ne ha garantito l’uso e, dunque, la conservazione nel tempo. Uscito illeso anche dal terribile terremoto del 1688, che distrusse molti monumenti di Benevento, l’arco, nella documentazione cartografica più antica, è raffigurato ancora completamente inglobato nella cinta muraria.

Il primo concreto intervento di isolamento si realizza con il pontificato di Pio IX nel 1854. Alla fine dell’Ottocento si demolisce la sopraelevazione dell’attico e si sostituiscono i pezzi mancanti della cornice con nuovi travertini sagomati. In seguito, le foto della seconda guerra mondiale mostrano un arco completamente ricoperto di sacchetti di sabbia, mantenuti da strutture lignee per proteggerlo da eventuali bombardamenti. Nel 1975 la Soprintendenza ai monumenti della Campania esegue un intervento per il consolidamento statico ed il restauro conservativo dell’Arco. Dopo il terremoto del 1980, sulla base di controlli, è stato stabilito l’avvio, con la massima urgenza, di un restauro dell’intero monumento a causa della ripetuta caduta di frammenti.

I lavori, svolti in diverse fasi, culminano nel 1999, con l’allestimento di un ponteggio speciale per poter seguire da vicino il restauro e soprattutto ammirare i rilievi che costituiscono una sintesi iconografica degli oltre dieci anni di governo e azioni militari dell’Imperatore. Oggi, l’osservatore che per la prima volta viene a Benevento e si imbatte in questa opera, simbolo dell’avventura di un imperatore, Traiano, e di una città, Roma, non può evitare di immergersi in un’atmosfera magica nella quale la sfida con l’eternità trova la sua concretizzazione.

Chiesa di Santa Sofia

Chiesa di Santa Sofia

La chiesa di Santa Sofia fu fondata da Arechi II, che nel 758 divenne Duca di Benevento per volere di Desiderio, Re dei Longobardi, di cui aveva sposato la figlia Adelperga. In quell’anno Desiderio si era mosso dalla capitale Pavia contro i duchi di Spoleto, Alboino, e Benevento, Liutprando, i quali, aspirando a una maggiore autonomia, si erano posti sotto la protezione del re dei Franchi Pipino il Breve. Conquistata Benevento, Desiderio insediò il genero Arechi alla guida del ducato beneventano.

In passato era altresì accreditata la tesi secondo cui la costruzione della chiesa fu avviata dal duca Gisulfo II, padre di Liutprando. A sostegno di tale tesi il brevissimo lasso di tempo tra l’ascesa al potere di Arechi (marzo-aprile 758) e la prima solenne celebrazione (maggio 760) durante la quale lo stesso Arechi depose nell’abside maggiore le reliquie di dodici martiri; inoltre Leone Ostiense (monaco e bibliotecario a Montecassino a cavallo tra XI e XII secolo), forse confondendo questa chiesa con quella di Santa Sofia a Ponticello, ne assegna appunto a Gisulfo la fondazione.

Probabilmente su suggerimento di Paolo Diacono, monaco e storico longobardo autore dell’Historia Langobardorum, Arechi intitolò il tempio alla Santa Sofia, cioè alla Santa Sapienza, a somiglianza dell’omonima basilica di Costantinopoli inaugurata dall’imperatore Giustiniano I nell’anno 527.

Portata a termine nel 762, come si evince da un atto di donazione dello stesso Arechi del 774 essa fu edificata “pro redemptione animae meae sue pro salvationis gentis nostrae”, divenendo di fatto Chiesa nazionale e simbolo della spiritualità del popolo longobardo.

Nel 768 la chiesa ospitò le reliquie di San Mercurio e di altri 31 martiri cristiani,

Arechi II annesse alla chiesa una comunità di suore benedettine, inizialmente sottoposta al vicino convento maschile di San Benedetto a Xenodochium, alla cui guida pose la sorella Gariperga. L’intera comunità monastica era dipendente dalla giurisdizione di Montecassino.

L’abbazia, in seguito a donazioni e lasciti, divenne una delle più potenti dell’Italia meridionale; già nel X secolo alle suore erano subentrati i monaci, il cui primo abate fu Orso. Tra l’XI e il XII secolo numerosi Pontefici (Ottone I, Ottone II, Ottone III, Benedetto VIII, Leone IX, Gregorio VII, Urbano II, Pasquale II) concessero all’abbazia molti privilegi, accordandole l’autonomia da Montecassino e il diritto dell’elezione dell’abate. Essa raggiunse l’apogeo nel secolo XII, non solo per la sua chiesa monumentale ma anche per il suo “scriptorium” dove si sviluppò la scrittura beneventana divenuta famosa nel mondo. A partire dal XIV secolo si aprì un periodo di decadenza: nel 1455 i monaci furono sostituiti da canonici benedettini e l’abbazia fu concessa da Papa Callisto III in commenda al nipote Rodrigo Borgia (futuro Papa Alessandro VI). Nel 1595 il cardinale Ascanio Colonna, abate commendatario, ottenne la sostituzione dei benedettini con i canonici Regolari della Congregazione del Santissimo Salvatore, che ressero la badia fino alla soppressione della Congregazione nel 1806. A partire dal 1827, con la morte dell’ultimo abate commendatario, cardinale Fabrizio Ruffo, il beneficio di Santa Sofia fu soppresso e il complesso monastico fu assegnato da Papa Leone XII ai Gesuiti; dal 1834 la struttura fu gestita dai Fratelli delle Scuole Cristiane, che svolsero la loro attività educativa fino al 1928, quando il monastero accolse il Museo del Sannio e la chiesa fu elevata a Rettoria.

L’ARCHITETTURA

La chiesa di Santa Sofia si presenta come un edificio di eccezionale interesse nell’ambito dell’architettura dell’alto medioevo.

Essa è di modeste dimensioni, contenuta in un circolo di soli metri 23,50 di diametro. Le murature perimetrali sono di cm. 95 di spessore ed eseguite con due file di mattoni, spessi circa 3 cm, intercalate da una fila di tufelli irregolarmente squadrati.

La pianta è unica nel suo genere. Essa presenta un nucleo centrale costituito da un esagono ai cui vertici sono collocate sei grandi colonne (provenienti forse dall’antico tempio di Iside), collegate tra loro con archi sui quali si sviluppa la cupola. Intorno a questo esagono centrale troviamo un secondo anello, decagonale, con due colonne subito dopo l’ingresso e otto pilastri in blocchi di pietra calcarea bianca intercalati da strati di mattoni.

I pilastri non sono disposti in conformità ai canoni classici, cioè orientati tutti allo stesso modo oppure radialmente, come sarebbe logico in un edificio a pianta centrale; infatti ciascun pilastro è orientato parallelamente alle retrostanti pareti perimetrali, il cui andamento è stupefacente: circolare nella zona presbiteriale che ospita anche le tre absidi, poi a forma stellare per ritornare di nuovo circolare in corrispondenza del portale d’ingresso.

Tutto ciò crea giochi di prospettive, di ombre e di luci cha affascinano il visitatore; si pensi, ad esempio, alla straordinaria varietà delle volte, dovuta all’insolito accoppiamento della corona esagonale con quella decagonale: il susseguirsi di volte prima quadrangolari, poi romboidali e infine triangolari è forse un richiamo alla forma delle tende usate dal popolo longobardo durante il suo lungo girovagare in Europa.

Gli otto pilastri a sezione quadrata e le due colonne (con capitelli antichi) del decagono sono sormontati da pulvini altomedievali, mentre le colonne dell’esagono presentano solo capitelli, ma non pulvini, e basi costituite da antichi capitelli rovesciati.

Lo splendore dell’antica chiesa è inoltre testimoniato dai resti degli affreschi delle absidi, i quali, pur nella frammentarietà che ne impedisce l’interpretazione iconografica, rivelano un ampio respiro artistico e una notevole potenza espressiva.

GLI AFFRESCHI

Originariamente la chiesa doveva essere completamente affrescata. Lo dimostrano i frammenti tuttora visibili, oltre che nelle absidi, anche su un pilastro (il primo a sinistra entrando in chiesa), alla base del tiburio (è il piede di un individuo) e negli spigoli delle pareti a stella.

Nelle due absidi laterali sono presenti elementi superstiti del ciclo pittorico che dedicato alle Storie di Cristo. In quella di sinistra sono ancora visibili stralci di due scene della Storia di San Giovanni Battista: l’Annuncio a Zaccaria della nascita del Battista e il Silenzio di Zaccaria che indica ai fedeli stupefatti di essere stato privato della parola per l’incredulità all’annuncio dell’Angelo. Tali scene ricalcano il testo del primo capitolo del Vangelo di Luca.

Nell’abside destra sono rappresentate le Storie della Vergine. Da sinistra a destra si riconoscono l’Annunciazione a Maria, con l’angelo che si volge benedicente verso il trono della Vergine, e la Visitazione, con l’abbraccio fra Maria ed Elisabetta.

Tali affreschi furono probabilmente voluti dallo stesso Arechi II e realizzati da un anonimo artista siro-palestinese entro il 768, anno della tumulazione delle reliquie di San Mercurio.

Altri affreschi, di epoca posteriore, sono presenti nella sezione inferiore dell’abside destra.

I RESTAURi

Santa Sofia non ha mantenuto sempre lo stesso aspetto nel corso dei secoli.

RESTAURO MEDIEVALE

Nel secolo XII la chiesa, a cui successivamente all’anno Mille era stato aggiunto il campanile a ridosso del lato sinistro della facciata (per opera di Gregorio, abate dal 998 al 1022), subì infatti un primo restauro che, lasciandone intatta la pianta originaria, aggiunse in corrispondenza della facciata un corpo di fabbrica quadrangolare, poggiato su quattro colonne; questo intervento determinò il parziale abbattimento della facciata, che in origine era lunga solo 9 metri.

Nella lunetta centrale, al di sopra del nuovo portale così realizzato, venne anche inserito un bassorilievo che ora si trova sulla porta d’ingresso della chiesa. In esso è raffigurato Cristo in trono, la Vergine a destra, ed alla sinistra San Mercurio martire (milite romano le cui reliquie – tumulate nel 768 – attualmente riposano sotto l’altare della cappella destra) con a fianco un monaco inginocchiato, forse l’Abate Giovanni IV, promotore del restauro e della ricostruzione del chiostro arechiano, che era stato distrutto dal terremoto dell’anno 968.

All’interno si sistemò una “schola cantorum” nell’esagono centrale e probabilmente in tale occasione i due pilastri all’ingresso furono sostituiti con due colonne con colonne.

RESTAURO BAROCCO

Il terremoto del 5 giugno 1688, che rase a suolo la città, causò ingentissimi danni anche in Santa Sofia. Tutta la struttura risultò seriamente lesionata: crollò la cupola centrale esagonale a spicchi, molto più bassa di quella attuale e senza aperture; il campanile romanico si rovesciò sul corpo avanzato, distruggendolo completamente. I Canonici Lateranensi avviarono la ricostruzione della cupola (realizzando un alto tiburio non presente in origine) e la realizzazione di una grande cappella rettangolare in sostituzione dell’abside centrale.

Con la ricostruzione in forme barocche tra il 1696 e il 1701 ad opera dell’architetto Carlo Buratti (e le ulteriori modifiche avutesi in seguito al successivo terremoto del 14 marzo 1702) voluta dall’allora Arcivescovo di Benevento Cardinale Vincenzo Maria ORSINI – divenuto poi Papa BENEDETTO XIII – si apportarono radicali trasformazioni che determinarono la scomparsa della primitiva configurazione longobarda e causarono la quasi completa distruzione dei preziosi affreschi.

Gli interventi consistettero, tra l’altro, nella trasformazione della pianta da stellare a circolare, nella obliterazione delle absidi laterali, nella rastremazione degli otto pilastri e nella realizzazione della nuova facciata, tuttora parzialmente esistente. Si realizzarono inoltre due cappelle laterali (o solo quella sinistra essendo forse già presente a destra la cappella delle Reliquie) e la sacrestia. L’interno fu completamente intonacato e arricchito di stucchi. Nuovi altari – attualmente due sono posizionati nelle cappelline laterali, un terzo, dedicato a San Giovenale, è stato spostato nella chiesa del Santissimo Salvatore – e statue – notevoli il San Giovenale e l’Immacolata, entrambe realizzate successivamente dal Cerasuolo (1790), ora al Santissimo Salvatore – contribuirono ad arredare l’interno secondo il gusto barocco.

RESTAURO MODERNO

Nel secondo dopoguerra iniziarono, a cura della Soprintendenza ai Monumenti di Napoli, i lavori di restauro che, con un discusso intervento, permisero di riportare alla luce l’originale schema strutturale murario longobardo e di completare poi le parti demolite o manomesse in occasione della trasformazione barocca. Ai primi saggi, avviati nel 1947, seguirono i lavori che, iniziati nel marzo del 1955, terminarono nel 1960 quando la chiesa fu riconsegnata alla comunità parrocchiale.

Furono eliminati gli stucchi e gli intonaci e riportate in vista le due absidi laterali con gli affreschi residui, mentre l’abside centrale fu ricostruita nelle sue dimensioni originarie. Sulla base delle indicazioni fornite dalle ricerche archeologiche furono riproposte le pareti ad andamento stellare,di cui si era completamente persa la memoria, eliminando i due tratti di muro circolare, voluti dall’Orsini, che avevano incorporato gli spigoli esterni delle pareti a zig-zag. Si ricostituì la originaria sezione quadrata dei pilastri, fu abbassata la quota di calpestio, furono eliminate le due cappelle laterali, venendo così a creare due nuove cappelline (la destra dedicata a San Gerardo, la sinistra dedicata alla Madonna) non presenti nelle precedenti configurazioni della chiesa.

Relativamente più leggeri furono invece gli interventi sulla facciata barocca: oltre al già menzionato abbattimento delle due cappelle laterali, furono obliterati il rosone e i due finestroni, mentre il portale fu arretrato nella posizione originaria, al di sotto dei due archi a doppio centro emersi durante i saggi.

SANTA SOFIA PATRIMONIO DELL’UMANITA’

Tra il 2005 e il 2010 l’Amministrazione comunale di Benevento e la Soprintendenza BAPSAE hanno realizzato alcuni interventi di restauro, consistenti essenzialmente nella pulitura delle superfici murarie, nel rifacimento della pavimentazione e nell’adeguamento degli impianti.

Il 25 giugno 2011 il complesso monumentale di Santa Sofia è stato inserito nella World Heritage List dell’Unesco all’interno del sito seriale “I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)”, comprendente i seguenti beni:

  1. Cividale del Friuli: Area della Gastaldaga e complesso episcopale
  2. Brescia: Area monumentale e complesso di Santa Giulia – San Salvatore
  3. Castelseprio: Torba: Castrum e chiesa di Santa Maria foris portas
  4. Campello sul Clitumno: Il tempietto
  5. Spoleto: Basilica di San Salvatore
  6. Benevento: Complesso di Santa Sofia
  7. Monte Sant’Angelo: Santuario di San Michele
Teatro Romano

Teatro Romano

Il teatro romano di Benevento fu costruito nel II secolo sotto l’imperatore Adriano nelle vicinanze del cardo maximus; oggi è circondato dal medievale Rione Triggio.

La pianta del teatro è semicircolare e presenta dimensioni grandiose: ha un diametro di 90 m e originariamente aveva una capienza di 15mila persone. L’esterno presentava 25 arcate articolate su tre ordini, delle quali rimangono oggi quelle del primo, inquadrate da colonne con capitelli tuscanici, che danno accesso all’interno alternativamente tramite corridoi e scale, e parte di quelle del secondo ordine.

La cavea si è conservata in buona parte. Sotto di essa i corridoi e le scale d’accesso sono collegati da due ambulacri paralleli che fanno da cassa armonica. La scena, molto ampia, presenta resti di tre porte monumentali, alle terminazioni della cavea, che davano accesso all’orchestra; ai suoi lati vi sono i resti dei parodoi, in particolare la sala a destra conserva il pavimento in mosaico e le pareti marmoree policrome (come forse in origine doveva essere rivestita gran parte del teatro). Alle spalle della scena tre scalinate portavano ad un livello inferiore, forse ad un ingresso monumentale per gli artisti.

Il viale d’ingresso è decorato da mascheroni che richiamano quelli usati dagli attori; attorno al teatro sono ancora in corso indagini che hanno rilevato resti di costruzioni forse adibite a scuola di ballo e associazione di artisti.

 

SI CONSIGLIA DI VERIFICARE LA CORRISPONDENZA DEGLI ORARI DI APERTURA CONTATTANDO DIRETTAMENTE LA STRUTTURA.
Rocca dei Rettori

Rocca dei Rettori

La Rocca dei Rettori, conosciuta anche come Castello di Benevento o Castello di Manfredi, è un castello che si trova nella città di Benevento. Venne fondato sul sito di un precedente palazzo fortificato longobardo, edificato dal duca Arechi II a partire dal 871 nel luogo detto “Piano di Corte”. Il palazzo sopravvisse anche dopo la fine del ducato di Benevento

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